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Ci riproviamo, seconda edizione dell’Open Mike a Novara di Sicilia nel garage di Maria Adele a San Sebastiano. Un luogo che negli anni ha ospitato in modo informale le attività più disparate, accogliendo amici, comitive di passaggio, riunioni, incontri, grazie alla generosità spontanea e allegra di mia nonna Maria Adele. Un luogo aperto che vogliamo mantenere tale, nonostante lei non ci sia più.

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Grafica di Elisabetta Truscello

Ci vediamo sabato 26 marzo a partire dalle ore 16.00 per continuare quello che abbiamo cominciato l’anno scorso, fuori dall’ovvio, con il contributo artistico e la presenza di chi è a Nuvara in questi giorni.
Chiamatelo evento, se vi piace e se così vi è più chiaro, ma è più che altro un incontro, dove ciascuno può esibirsi, se vuole, e dove vogliamo parlarci, guardarci negli occhi e condividere piccoli frammenti di arte, musica, cultura. Tutto a dimensione domestica, anzi, da garage. Potete contribuire portando una esibizione, oppure cibi e bevande per banchettare insieme. Il garage è di dimensioni ridotte, per cui chiediamo di farci sapere se porterete altri amici (che comunque sono ben accetti).

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Giovani cieli all’open mike

L’anno scorso abbiamo ascoltato musica blues, letto poesie, guardato foto, parlato di Opera Lirica, visionato progetti di grafica, chiacchierato e bevuto insieme, parlato di piccoli paesi e visto il documentario di Franco Arminio sulla loro vita. Insomma, niente di scontato, ma a portata dei nostri desideri.

 

Vi aspettiamo, non siate timidi 😉
La scaletta sarà decisa sul momento.

Qui l’evento Facebook

Per adesioni e info fermateci “a cantuea d’a chiazza” oppure commentando questo post.

Ci vediamo domenica 5 aprile al Nuvara of Sicily OPEN MIKE easter edition, ore 16.30 nel Garage di mia Nonna a San Bastiano.
Più che un evento un esperimento informale d’incontro artistico in un luogo che in passato è stato tacitamente aperto per prove musicali e teatrali, ospitalità “francescana”, accoglienza generosa.
Garage di mia Nonna, non si tratta di un locale di tendenza dal nome un po’stupidino, evi propriu u garage unni ogni estadi si pruvavo tiatri, si stava a suà e parrà, si faggivo dormi amiggi e autri genti. Luogo messo a disposizione della Comunità dalla generosità spontanea e allegra di mia nonna Maria Adele, buonanima 🙂
Questa Pasqua apriamo le porte a letture, esibizioni, performance, chiacchiere informali. Un evento su invito, ma potenzialmente aperto a tutti.

> Novara di Sicilia, provincia di Messina, 650 mslm vista Eolie / piazzetta i san Bastiau a partire dalle ore 16.30

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MUSICA • LETTERATURA • TEATRO • FOTOGRAFIA • VIDEO • STRAPARENZE sono le benvenute.
Non una Corrida, ma un’interazione di corna: bavaraggi accorrete numerosi!

Che l’Aria d’a Rocca sia con noi!

[Grafica di Elisabetta Truscello]

Torna il Natale e come ogni anno ci si trova davanti ai grandi interrogativi dell’umanità, ancora faticosamente riproposti, alla sequela dei buoni propositi e degli auguri, e alla faticosa irriverenza scanzonata che fa da contraltare obbligato.
Ci si ritrova ad augurare serenità, pace, che i desideri del prossimo e i nostri vengano esauditi. Siamo all’esaudimento nervoso. Il passato ormai sa di vecchio, così ci ritroviamo a costruircene una nuova versione: un passato rivisitato e lustro, pronto all’uso e che ci aiuti ad affrontare un futuro al quale ci abbandoniamo con la fiducia che si ripone in un usuraio. Non c’è più il consumismo nel nostro orizzonte, ma di contro non c’è più la solidarietà. Sono concetti del secolo scorso, ma di nuovi ancora non ne abbiamo. “Scaldare i cuori”, una delle espressioni più comuni riferite al Natale, adesso mi sembra una dichiarazione di una vuotezza abbacinante.
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La Festa è connaturata alla socialità umana. E ancora di più la Festa serve, è necessaria: agli affari prima di tutto, al corpo che si prende un meritato riposo, e all’anima (faticosamente ritrovata per l’occasione da esperti palombari e buttata in tavola col cappone e il baccalà).
Il marketing ha bisogno delle feste, come voi tutti potete insegnarmi, il marketing sui social ancora di più.
Immaginate un’infinita serie di messaggi di Buongiorno riproposti senza soluzione di continuità, tutti uguali, senza il tocco di colore che dà ad esempio il Natale. Immaginate un’infinita gamma di video virali – non c’è parola che più mal sopporto – senza la punteggiatura della video-cronaca dell’anno che sta per finire. Alleluja!

Con l’accento religioso del Natale, con quello laico del Capodanno, con la nota fuori dal coro di chi contesta la ripetitività dei rituali, ci accingiamo a trascorrere l’ennesimo periodo di Festa. Ma ogni Festa presuppone un raccolto e una chiamata a raccolta, e noi cosa stiamo raccogliendo e attorno a cosa ci stiamo raccogliendo? La famiglia, il riposo, i sapori di una volta, la religione, la fede? E per chi vive lontano dal paese d’origine, e può tornarvici, i ricordi, i vecchi amici? Tutto resta uguale e cambia.

Luminarie propinate a novembre, motivetti insulsi, bontà a buon mercato e colore locale, come da copione. Ho diffidenza anche per gli zampognari natalizi, per quanto quelle sonorità e l’origine di quegli strumenti mi affascinino. Zampognaro, tu sai dove mi stai portando con quella musica? o il tuo è solo folklore?

Quand’ero piccolo io gli zampognari al mio paese non c’erano. No. Per me bambino il Natale erano i musicanti che di casa in casa suonavano clarinetto, sax, tromba, cassa e piatti – al massimo un corno e un oboe – portando “a nuvera” davanti alle cappellette votive di casa in casa in cambio di una piccola offerta, di un bicchiere di vino e di un dolce.
Ma ancora di più il Natale era il suono dell’organo della cappellina dell’Abbazia, con la minuscola suora anziana che tirava fuori dei suoni che neanche sapeva lei come. Pagherei per farvi risentire quel suono straniante, psichedelico, un suono degno di “In-a-gadda-da-vida” degli Iron Butterfly o delle galoppate di Ray Manzarek, solo più rallentato e sconnesso. Viaggiavamo nel tempo io e la torma di vecchiette che popolavano la chiesetta alle cinque del pomeriggio, a partire dall’invitatorio “Il Re viene il Signore”, comunemente cantato anche adesso in tutte chiese suppongo. Rapito dal significato messianico mi sentivo pronto ad affrontare i pericoli del mondo. Ipnotizzato dalle note flautate e malferme, trattenevo solo brandelli di testo: “i monti stilleranno dolcezza…dall’uno all’altro mare, dal fiume agli ultimi confini della terra…non verrà meno alla parola data”. Ma quella musica, quella musica. Pagherei per risentire quel mugolio e per farvelo sentire.

Lo so, non suonava così. Ma è come se suonasse così. “Dal fiume agli ultimi confini della terra”.

Io, decenne, lasciavo il branco di amici intenti a giocare a nascondino e andavo a fare il bravo bambino devoto. Ma anche a farmi il mio viaggio in medio oriente e la mia dose di epica.

Suonava così?

Sì, grazie, lo so bene che non suonava così. Ma nella mia memoria sì. Oh piccola suora minuta nel tuo abito marrone delle Figlie del Divino Zelo, scorri ancora sul tuo organo, pace all’anima tua! Sarai morta da tempo, il convento all’Abbazia ormai è vuoto e chiuso da anni, abbandonato e senza vita, ma io vorrei tornare a sentirti. Sono in pieno delirio passatista. Più che ricordare, viaggio nel tempo e continuerò a farlo per tutta la notte. Come una stella cometa.
Tanti anni fa, ogni notte di Natale, mia nonna rinnovava i suoi voti connessi alla capacità di fa “u pr’cantu e di l’và u scantu”, cioè di togliere il malocchio e di curare gli stati di shock. Aveva il suo bel da fare. Stanotte starei volentieri a sbirciarla.

Ora puntualizzare che il 25 dicembre era una festività pagana fagocitata dal cristianesimo ha una portata così limitata che non vale la pena discuterne. Natale si, Natale no, Natale forse, comunque, per quanto. Capodanno si, no, forse, comunque, per quanto. Le due festività gemelle accomunano loro malgrado laici e credenti in una forzata riflessione sul limite, sul confine, sul margine. Sulla nascita inspiegabile, sul mistero della continuazione.
“Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata”, lasciatemi con la piccola suora minuta centenaria. Non voglio fare le foto al cenone e dire che il fritto è il fritto. Avete voglia di venire con me “con le quattro capriole di fumo del focolare”?
Resteremo in un canto riparato a scambiarci gli auguri per tutto l’anno. Augurio: sarebbe la capacità di trarre auspici, previsioni, dal canto o dal volo degli uccelli.  Più che una forma di benedizione, una forma di divinazione: avvenimenti letti come segni attribuiti al futuro. Una sorta di semeiotica applicata agli accadimenti. Augurare: guardare i segni esteriori di chi ci troviamo di fronte per prevedere il buon esito della sua vita. In quest’ottica, quella dell’augurare sarebbe un’attività da praticarsi con cura, parsimonia e attenzione. Solo alcune persone riescono a essere sincere, o quanto meno non meccaniche e ripetitive, nell’atto di augurare. Stanotte vorrei guardarvi negli occhi e augurarvi il futuro. Ma so che nella maggior parte dei casi vi farebbe paura e correreste via. Lo farei anche io.

“U scantu” era uno stato di shock causato per lo più da traumi, poteva essere guarito con un rito semplice in apparenza, ma che doveva coinvolgere tutta la potenza psichica di chi lo stava mettendo in pratica. Il procedimento era per sommi capi questo: si prendeva un filo di lana e con quello si misurava l’altezza della persona dalla testa ai piedi. Poi si misurava l’estensione delle braccia da palmo a palmo. Le due misure risultavano diverse – questo era l’indizio che la persona “avia u scantu”.  Appallottolati insieme i fili delle due misure, si recitavano preghiere, formule e invocazioni delle quali non ho memoria. A questo punto il piccolo gomitolo veniva consegnato alle fiamme. Dopo si procedeva di nuovo a misurare l’altezza e l’apertura delle braccia: le due misure coincidevano, così la persona poteva riprendere la sua vita senza “scantu”.

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Oggi pomeriggio davanti agli enormi ceppi posti in Piazza per il tradizionale fuoco, il mio amico Vincenzo ha detto “so l’urtimi arburi i Mandrazzi, i tagliaro tutti nta na votta e si livaro u pinzè”. Mi auguro che non sia così, ma se devo guardare gli auspici so che Vincenzo nella sua ironia ha detto il vero.

Auguri Mondo. Anche se non ti piacciono. Hai proprio bisogno di un nuovo sguardo sul futuro, te lo leggo negli occhi.

 

Questa ve la devo proprio raccontare.

Mi arriva una telefonata
–  Savo, è morto Lou Reed.
– Porco cazzo, non me lo dire! Lou Reed Lou Reed?
– Si proprio lui.
Riaggancio e vado a sedermi sul cesso, luogo di riflessione e raccoglimento, dove leggo le lettere d’amore e ritrovo i momenti solo miei, dove strimpello la chitarra e, molto raramente, piango.

Lou Reed The Blue Mask

Resto in uno stato di prostrazione di qualche secondo, poi mi riprendo, pensando che in fondo nell’ultimo anno è morta mia nonna e qualche caro amico, che i lutti mi si sono accavallati addosso e la morte di questo zio glam, alla fine non troppo giovane, arriva solo come una leggera spallata della vita. Non letale. Nemmeno percettibile.
Di amici e parenti restano labili ricordi, le foto, al massimo qualche filmino; le voci si sbiadiscono col tempo e le immagini che conserviamo nella mente si sfumano, si fermano in una fissità irreale. Lou Reed no, lui può continuare a cantare, tale e quale al giorno prima della sua morte, al giorno della pubblicazione dei suoi album. Un lusso che i comuni mortali si sognano. E’ per questo che tutti dovremmo scrivere canzoni, fare un film almeno, lasciare registrazioni vocali.

Metto su “Waves of fear” e dico pace all’anima sua, e aggiungo rifrisca e paradisu, secondo l’uso dei miei antenati.
Mi appoggio alla parete e ascolto la voce di Lou e la chitarra di Robert Quine fino all’ultima nota.
Nei giorni successivi ascolto tutta la discografia dello zio morto, una specie di cremazione musicale a lenta combustione.
Lou Reed è stato una coscienza poetica per me e ascoltare tutta la sua musica mi riconcilia con quella poesia sbilenca che mi ha fatto accettare di essere un disadattato, un disagiato sulle strade del mondo. Una poesia che avrò di sicuro frainteso e adattato ai miei stati d’animo.
Tra un album e l’altro tiro su il telefono , mi ci aggrappo:
– Ma è morto morto?
– No, solo un po’. Solo quel tanto che basta a renderlo immortale sui poster e sulle copertine e nelle fotografie.
Riaggancio. “Ma quanti di noi sarebbero dovuti finire sulle copertine, davvero. Di quanti vorrei avere poster e registrazioni, bobine da riascoltare, video di prima del grande ciao”.
Nel silenzio tra “Sally can’t dance” e “Rock and Roll Heart” mi ricordo.
Mi ricordo che qualche anno fa avevo scritto un racconto che s’intitolava “Volevo essere Lou Reed”. Ora è il momento giusto per ricacciarlo fuori dal cassetto, per rimetterlo in sesto e pubblicarlo da qualche parte, come epitaffio commemorativo e come auto-celebrazione. Sì, volevo essere Lou Reed.

“Volevo essere Lou Reed”, il file si trova nella mia vecchia chiavetta di un tempo. Certo sarebbe stato più fico un manoscritto nascosto, una pila di fogli A4 da sfogliare, un’agenda. Ma mi accontento.
Apro il file. Bianco. Scorro scorro scorro. Vuoto.
Torno su, il titolo recita proprio “Volevo essere Lou Reed”. Torno giù. Un bianco a tutto schermo.
Porco cazzo. Porco porco cazzo. Non me l’aspettavo: ero riuscito a scrivere il titolo senza appuntarmi nemmeno un’idea?
Rimetto su “Waves of fear” e mi siedo di nuovo sul cesso. Mi concedo un altro lungo ascolto di canzoni “Sally can’t dance” tutto l’album, poi “New York” tutto l’album.

Alla fine riapro il file: “Il teatro è da sfigati, ci sono finito dentro solo perché non so suonare la chitarra. Io volevo essere Lou Reed”, scrivo. Salvo.
Non è un racconto, è vero, ma mica volevo fare lo scrittore.

Da 7 al 10 febbraio il Teatro dei Venti è a Pontedera al Teatro Era per il progetto “Scendere da Cavallo” – scambio artistico tra 11 compagnie italiane promosso da Fondazione Pontedera Teatro – a latere del quale vengono presentati anche spettacoli aperti al pubblico. Uno di questi è IL DRAAAGO, spettacolo che Teatro dei Venti ha portato in tournée di piazza in piazza negli ultimi 2 anni e mezzo.

Per noi che ci lavoriamo dentro e intorno questo è un felice invito: significa che “la creatura” ha una sua dignità teatrale, una bellezza che può essere mostrata al pubblico selezionato dei teatri veri – quelli con le poltroncine rosse, con le luci d’emergenza e le porte antipanico.

IL DRAAAGO ha debuttato nel giugno 2010 e da allora ha girato tante Piazze portando il Teatro anche tra chi a Teatro non è mai andato o ci è stato solo a vedere la commedia dialettale o il saggio scolastico.

Il Teatro fuori dai Teatri ha una tradizione che va in giro dagli anni ’70, da quando gruppi storici della ricerca teatrale si sono affacciati nelle strade, tra le piazze, in mezzo alle comunità, per andare a pescare il pubblico che dai teatri se ne fuggiva e per portare il Teatro dove la vita si svolgeva.
E l’ispirazione che ha mosso il Teatro dei Venti a fare spettacoli di strada è un po’ questa: cogliere il pubblico vicino a “casa sua”, portandolo al contempo “a casa nostra”.
“Casa sua” è dove la gente vive, o dove va a spasso; “casa nostra” è dove portiamo i nostri spettacoli, e ancor più dove possiamo fare le nostre prove.

Personalmente ho conosciuto il Teatro nelle Piazze del mio paese, dove il pubblico si portava le sedie da casa e la gradinata del Duomo fungeva da tribuna, prima che nei Teatri con le poltroncine. Per questo quando ho incontrato il Teatro dei Venti ho riconosciuto una urgenza comune, come una voglia di inseguir palloni tra i vicoli.

Ricordo una bellissima replica a Pomarance (PI) – insieme alle altre nei paesi della Val di Cecina nel corso di VolterraTeatro 2010, in cui il clima ideale di attenzione per lo spettacolo in atto si è fuso alla vita della comunità ospite. Oppure quella nel Carcere di Volterra, sempre in quei giorni, in cui il cortile del penitenziario è diventato scena ideale, luogo deputato per le vicende dello spettacolo, con il pubblico urlante e incitante come la storia prevede.

Ma non ci sono recensioni – o ce ne sono poche e nascoste – degli spettacoli di strada, e ancora non ne abbiamo del DRAAAGO. Sarà che pensando al Teatro in strada si pensa ai giocolieri, ai funamboli e ai loro gesti di abilità tanto sorprendente quanto effimera. Sarà che i critici se ne stanno sulle poltrone rosse dei Teatri, sarà che è difficile scrivere di Teatro in strada –  parrà strano recensire un evento che si svolge mentre i bambini mangiano i loro scioglievoli ghiaccioli, mentre un cane passa in scena, e i palloncini fanno da ulteriore addobbo scenografico, mentre non troppo lontano si mangia pane e porchetta (senza mayonese, grazie!).

O sarà che il Teatro in strada di recensioni non ha bisogno, con la sua carica di spettacolarità in eccesso che forse imbarazza, mentre ha bisogno di foto che lo veicolino e di Piazze che accettino per un po’ di offrire il proprio via-vai e le proprie architetture alla poetica trasfigurazione urbanistica che il Teatro mette in atto.

A Pontedera IL DRAAAGO  incontra il Teatro ufficiale, con biglietteria e prenotazioni, e magari incontrerà anche qualche critico che vorrà guardarlo senza il rumore di fondo della strada, come un animale portato in cattività perché lo si possa osservare da vicino. Ma chissà che non diventi un’altro spettacolo, senza la sua piazza, le sue bancarelle, i suoi bambini seduti a terra in prima fila. O che viceversa non porti la Piazza in Teatro, con l’eco di quelle passate.

IL DRAAAGO
Teatro Era | 9 febbraio ore 21.00

liberamente tratto da Il Drago di Evgenji Schwarz

con Francesco Bocchi, Oksana Casolari, Francesca Di Traglia, Francesca Figini, Simone Lampis, Beatrice Pizzardo, Antonio Santangelo

regia Stefano tè

Consulente alla regia Mario Barzaghi

Consulente alla drammaturgia Salvatore Sofia

Musica dal vivo Igino L. Caselgrandi

Scenografie e oggetti di scena Teatro dei Venti

Macchine Teatrali Teatrini Indipendenti Factory

[ph. Chiara Ferrin/ViaStella8]

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