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Torna il Natale e come ogni anno ci si trova davanti ai grandi interrogativi dell’umanità, ancora faticosamente riproposti, alla sequela dei buoni propositi e degli auguri, e alla faticosa irriverenza scanzonata che fa da contraltare obbligato.
Ci si ritrova ad augurare serenità, pace, che i desideri del prossimo e i nostri vengano esauditi. Siamo all’esaudimento nervoso. Il passato ormai sa di vecchio, così ci ritroviamo a costruircene una nuova versione: un passato rivisitato e lustro, pronto all’uso e che ci aiuti ad affrontare un futuro al quale ci abbandoniamo con la fiducia che si ripone in un usuraio. Non c’è più il consumismo nel nostro orizzonte, ma di contro non c’è più la solidarietà. Sono concetti del secolo scorso, ma di nuovi ancora non ne abbiamo. “Scaldare i cuori”, una delle espressioni più comuni riferite al Natale, adesso mi sembra una dichiarazione di una vuotezza abbacinante.
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La Festa è connaturata alla socialità umana. E ancora di più la Festa serve, è necessaria: agli affari prima di tutto, al corpo che si prende un meritato riposo, e all’anima (faticosamente ritrovata per l’occasione da esperti palombari e buttata in tavola col cappone e il baccalà).
Il marketing ha bisogno delle feste, come voi tutti potete insegnarmi, il marketing sui social ancora di più.
Immaginate un’infinita serie di messaggi di Buongiorno riproposti senza soluzione di continuità, tutti uguali, senza il tocco di colore che dà ad esempio il Natale. Immaginate un’infinita gamma di video virali – non c’è parola che più mal sopporto – senza la punteggiatura della video-cronaca dell’anno che sta per finire. Alleluja!

Con l’accento religioso del Natale, con quello laico del Capodanno, con la nota fuori dal coro di chi contesta la ripetitività dei rituali, ci accingiamo a trascorrere l’ennesimo periodo di Festa. Ma ogni Festa presuppone un raccolto e una chiamata a raccolta, e noi cosa stiamo raccogliendo e attorno a cosa ci stiamo raccogliendo? La famiglia, il riposo, i sapori di una volta, la religione, la fede? E per chi vive lontano dal paese d’origine, e può tornarvici, i ricordi, i vecchi amici? Tutto resta uguale e cambia.

Luminarie propinate a novembre, motivetti insulsi, bontà a buon mercato e colore locale, come da copione. Ho diffidenza anche per gli zampognari natalizi, per quanto quelle sonorità e l’origine di quegli strumenti mi affascinino. Zampognaro, tu sai dove mi stai portando con quella musica? o il tuo è solo folklore?

Quand’ero piccolo io gli zampognari al mio paese non c’erano. No. Per me bambino il Natale erano i musicanti che di casa in casa suonavano clarinetto, sax, tromba, cassa e piatti – al massimo un corno e un oboe – portando “a nuvera” davanti alle cappellette votive di casa in casa in cambio di una piccola offerta, di un bicchiere di vino e di un dolce.
Ma ancora di più il Natale era il suono dell’organo della cappellina dell’Abbazia, con la minuscola suora anziana che tirava fuori dei suoni che neanche sapeva lei come. Pagherei per farvi risentire quel suono straniante, psichedelico, un suono degno di “In-a-gadda-da-vida” degli Iron Butterfly o delle galoppate di Ray Manzarek, solo più rallentato e sconnesso. Viaggiavamo nel tempo io e la torma di vecchiette che popolavano la chiesetta alle cinque del pomeriggio, a partire dall’invitatorio “Il Re viene il Signore”, comunemente cantato anche adesso in tutte chiese suppongo. Rapito dal significato messianico mi sentivo pronto ad affrontare i pericoli del mondo. Ipnotizzato dalle note flautate e malferme, trattenevo solo brandelli di testo: “i monti stilleranno dolcezza…dall’uno all’altro mare, dal fiume agli ultimi confini della terra…non verrà meno alla parola data”. Ma quella musica, quella musica. Pagherei per risentire quel mugolio e per farvelo sentire.

Lo so, non suonava così. Ma è come se suonasse così. “Dal fiume agli ultimi confini della terra”.

Io, decenne, lasciavo il branco di amici intenti a giocare a nascondino e andavo a fare il bravo bambino devoto. Ma anche a farmi il mio viaggio in medio oriente e la mia dose di epica.

Suonava così?

Sì, grazie, lo so bene che non suonava così. Ma nella mia memoria sì. Oh piccola suora minuta nel tuo abito marrone delle Figlie del Divino Zelo, scorri ancora sul tuo organo, pace all’anima tua! Sarai morta da tempo, il convento all’Abbazia ormai è vuoto e chiuso da anni, abbandonato e senza vita, ma io vorrei tornare a sentirti. Sono in pieno delirio passatista. Più che ricordare, viaggio nel tempo e continuerò a farlo per tutta la notte. Come una stella cometa.
Tanti anni fa, ogni notte di Natale, mia nonna rinnovava i suoi voti connessi alla capacità di fa “u pr’cantu e di l’và u scantu”, cioè di togliere il malocchio e di curare gli stati di shock. Aveva il suo bel da fare. Stanotte starei volentieri a sbirciarla.

Ora puntualizzare che il 25 dicembre era una festività pagana fagocitata dal cristianesimo ha una portata così limitata che non vale la pena discuterne. Natale si, Natale no, Natale forse, comunque, per quanto. Capodanno si, no, forse, comunque, per quanto. Le due festività gemelle accomunano loro malgrado laici e credenti in una forzata riflessione sul limite, sul confine, sul margine. Sulla nascita inspiegabile, sul mistero della continuazione.
“Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata”, lasciatemi con la piccola suora minuta centenaria. Non voglio fare le foto al cenone e dire che il fritto è il fritto. Avete voglia di venire con me “con le quattro capriole di fumo del focolare”?
Resteremo in un canto riparato a scambiarci gli auguri per tutto l’anno. Augurio: sarebbe la capacità di trarre auspici, previsioni, dal canto o dal volo degli uccelli.  Più che una forma di benedizione, una forma di divinazione: avvenimenti letti come segni attribuiti al futuro. Una sorta di semeiotica applicata agli accadimenti. Augurare: guardare i segni esteriori di chi ci troviamo di fronte per prevedere il buon esito della sua vita. In quest’ottica, quella dell’augurare sarebbe un’attività da praticarsi con cura, parsimonia e attenzione. Solo alcune persone riescono a essere sincere, o quanto meno non meccaniche e ripetitive, nell’atto di augurare. Stanotte vorrei guardarvi negli occhi e augurarvi il futuro. Ma so che nella maggior parte dei casi vi farebbe paura e correreste via. Lo farei anche io.

“U scantu” era uno stato di shock causato per lo più da traumi, poteva essere guarito con un rito semplice in apparenza, ma che doveva coinvolgere tutta la potenza psichica di chi lo stava mettendo in pratica. Il procedimento era per sommi capi questo: si prendeva un filo di lana e con quello si misurava l’altezza della persona dalla testa ai piedi. Poi si misurava l’estensione delle braccia da palmo a palmo. Le due misure risultavano diverse – questo era l’indizio che la persona “avia u scantu”.  Appallottolati insieme i fili delle due misure, si recitavano preghiere, formule e invocazioni delle quali non ho memoria. A questo punto il piccolo gomitolo veniva consegnato alle fiamme. Dopo si procedeva di nuovo a misurare l’altezza e l’apertura delle braccia: le due misure coincidevano, così la persona poteva riprendere la sua vita senza “scantu”.

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Oggi pomeriggio davanti agli enormi ceppi posti in Piazza per il tradizionale fuoco, il mio amico Vincenzo ha detto “so l’urtimi arburi i Mandrazzi, i tagliaro tutti nta na votta e si livaro u pinzè”. Mi auguro che non sia così, ma se devo guardare gli auspici so che Vincenzo nella sua ironia ha detto il vero.

Auguri Mondo. Anche se non ti piacciono. Hai proprio bisogno di un nuovo sguardo sul futuro, te lo leggo negli occhi.