Ranocchiette | racconto per un amico

Pubblicato: 29 agosto 2023 in Racconti scritti sui polsini
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In memoria di Raffaele – 29 agosto 2003 / 29 agosto 2023

Nel racconto ti avevo chiamato Daniele, ma sei tu, amico mio.
Un giorno ti ridarò il tuo nome forse, ma intanto teniamolo così.

Cerchiamo di tenerle nel palmo della mano, ognuno la propria, con la sensazione di star tenendo un germoglio animato di un frammento della vita universale. Tutti siamo stati delle ranocchiette. Non ne abbiamo ricordo forse, ma anche noi abbiamo avuto questa forma oblunga… In alcuni momenti, quando le cose che ci succedono ci stringono come in uno stagno, allora anche noi possiamo sentire delle mani che ci tengono, dispettose e crudeli, o stupite e attente. Che ci accudiscono, che ci tormentano.
Da cosa dipende la nostra percezione delle mani in cui ci sentiamo accolti, stretti, prigionieri, ospiti?
Stupiti e attenti siamo io e Rà: con gli sguardi a bocca aperta teniamo due ranocchiette pescate nel ruscello che scende verso il secco torrente dall’ampio bacino, disteso sotto il paese, oltre la vegetazione da foresta lussureggiante. Dall’abitato si vede solo il verde che arriva fino a Favea, ma non si immagina, nelle passeggiate tra le vaelle, quanti sentieri, rasole, muretti a secco si aprano, susseguano nella luce cangiante del tetto di foglie.
Teniamo le ranocchiette come se stessimo riuscendo a toccare l’interno di un ventre, una culla vitale. Per sfiorarne quanto serbato. Ma senza squarciarla, con una delicatezza che, a pensarci così, sembra impossibile.
Non come la vita stessa ha fatto per toccare e farsi toccare in Daniele. È stata la vita stessa a squarciare il suo stesso involucro. Ieri l’abbiamo visto come una ranocchietta, ma non abbiamo potuto tenerlo nei nostri palmi, con cura. Ogni cura era solo un’impossibile messinscena, che ciascuno voleva mimare per non ammettere che tutto era inutile. Ricomposto e steso nella luce della bianca chiesa avrei voluto colpirlo, forte, sulla testa. L’unica parte che sembrava umana. Il resto del corpo era come impagliato. “Guarda, sembra proprio lui.” “È come se dormisse”. Non è vero! Non è lui. Perché non ce lo prova che è lui? Sembra solo un vecchio fragile. Lui non era un vecchio fragile. Il biondo dei capelli sembra dimenticato, le mani sembrano non avere dita, ma intagli. Legno.

Lontani dalle strade percorse dal dolore, teniamo in mano le ranocchiette guizzanti, viscide come gli appena nati. Le nostre lacrime silenziose potrebbero farsi stagno, fare nei nostri palmi un rigagnolo ancora più accogliente. Rà si china e libera nell’acqua la ranocchietta. La guarda andare verso le sue sorelle, vede come siano ancor meno che ranocchiette, con la loro coda lunga: non più girini, ma ancora tanto bisognose del contatto con l’acqua, della simbiosi col liquido. Noi, noi cuccioli di uomo per crescere dobbiamo perderla del tutto la simbiosi? Mi si avvicina, sorride, e le lacrime montano come una marea dai suoi occhi. Forse anche lei si sente anfibia, come io vorrei sentirmi in simbiosi… Appoggia la guancia al mio braccio. Io sento un brivido… rischio di schiacciare la ranocchietta che ancora ho in mano, con l’emozione che mi ha fatto trasalire. Mette una mano tra le mie. Stiamo attenti che la creaturina non scivoli via, non cada a terra. Ci chiniamo, i nostri ginocchi si toccano; l’uno di fronte all’altra teniamo insieme quella appena-nata. È difficile formarle una culla in due, coi due palmi giunti: i palmi di due persone non è detto che siano un rifugio accogliente. Prestiamo attenzione che la ranocchietta non rimanga stritolata tra le nostre dita che s’intrecciano. “Sputagli sopra” dico, “che schifo!”. Sorridiamo e la brillantezza delle lacrime fissa i nostri sguardi l’uno all’altra. Ci baciamo, con un piccolo bacio triangolare appoggiato sotto il naso, dove le lacrime si nascondono, sopra le labbra. Lasciamo lo spazio affinché la nostra appena-nata non venga schiacciata dalla pressione dei nostri corpi. Riusciamo ad essere non troppo molesti, forse accoglienti. Rà immerge la mano nello scorrere d’acqua che quell’incontro d’alberi preserva dal prosciugarsi estivo. Prende un po’ d’acqua nel palmo, la versa nella culla delle mie mani. Socchiudo gli occhi: le lacrime, i raggi di luce fatti entrare da uno stormire del vento, i pensieri, non me li fanno tenere bene aperti. Guardiamo la ranocchietta, guizza per l’improvviso contatto con la sostanza da cui proviene. “Liberiamola!” dice Rà, “Anche se l’abbiamo curata per bene”. “Prima baciala, magari diventa un principino, un principe bambino.” Ciao ranocchietta. Con le mani ancora bagnate, ci abbracciamo sul ciglio del ruscello.

Il paese, qualche centinaio di metri in su, oltre la boscaglia, si sente ancora attraversato dal moto del dolore collettivo; lo sentiamo anche a distanza, percepiamo l’andirivieni dei ragazzi per trovare l’incoscienza, le loro scie che cercano incroci, contatti, risposte. Una generazione ha ricevuto la sua cresima di dolore. La vita come per mostrarsi meglio, come se avesse voluto pulsare più forte, con più bellezza, come se avesse voluto mostrare che la sostanza dei sogni esiste, ha cercato di rendersi visibile ancora di più, ha cercato di prendersi, è entrata nel suo stesso ventre-culla per prendere la propria sostanza e mostrarla ai suoi figli. Solo che non è riuscita a non squarciare il proprio ventre, a non schiacciare la sostanza, la sua stessa sostanza che avrebbe voluto glorificare, far tenere nei palmi commossi e attenti di questi suoi cuccioli giovani. Ogni generazione vive la propria cresima del dolore. Il dolore privato, personale, condiviso ma non per questo lenito. O il dolore impartito da un regime, da una stortura della società che una generazione vuole educare, rimuovere, cancellare. Ogni generazione deve crescere insieme; la vita vuole crescere le sue generazioni in gruppo, in comunità, branco, fraternità. Perché i vicini si devono capire, i vicini si devono capire! Affinché non restino soli, crescendo. Non sempre alla vita riesce di far crescere le generazioni dei propri cuccioli come comunità. In un piccolo paese la vita a volte non riesce ad avere riguardo. Nella vitalità di Daniele, la vita non ha avuto riguardo. Il dolore di tutti dovrebbe crescere le generazioni, i giovani ragazzi, i cuccioli. E noi ci sentiamo interpellati anche da questo dolore. Tornando verso il paese vediamo il campanile del Duomo, l’Arancia si riconosce per la sua fontana, centro del quartiere. Panni stesi attestano la presenza umana, come bandiere, sembrano salutarci; contrastano le traiettorie di dolore che percorrono il paese coi capannelli di ragazzi, con i pellegrinaggi verso il luogo dell’incidente. Io e Rà ci siamo voluti allontanare dall’afa delle strade, dall’aria immobile, abbiamo cercato di accudire il nostro dolore e scacciare l’angoscia. Ieri quest’afa sembrava fermare tutto il nostro mondo per prepararlo allo sbaglio della vita, come se avesse trattenuto il respiro un istante prima dello schianto.
Tenere tra le mani le ranocchiette, quella vita appena nata, trovata casualmente nella nostra fuga, è stato come accudire Daniele che non sembra più lui, nella bianca luce della chiesa. Torniamo verso il dolore collettivo, verso le domande lette negli occhi di chi avremo accanto, verso la condivisione delle imprecazioni, delle preghiere.
Sentiamo le mani che ci tengono nei palmi. Ci accucciamo. Ci ribelliamo. Come ranocchiette. Nelle mani di Dio. Quali mani sentiamo?
Arriviamo in paese, abbiamo allungato il nostro tragitto, sbuchiamo nelle vaelle di Spartiventu, sotto al Duomo. Un bacio sulla guancia. Un altro, tenuto. Le teste si cercano, fronte a fronte.
“Ci vediamo in chiesa poco prima della messa”. È l’ora di pranzo, l’aria trattiene ancora il respiro. “No, restiamo insieme tutto il giorno, sempre, sempre.”

Novara di Sicilia, a.d. 2008

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